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I numeri sono importanti, ma da soli non bastano per comprendere la crisi dei rifugiati. Né per comprendere né per reagire al problema che sta mandando in frantumi l’Europa.
Per decidere cosa fare, qui e ora, sia in termini di politiche migratorie sia in termini di pratiche di accoglienza non si può prescindere dal farsi un’idea di chi siano le persone che tentano di arrivare in Europa in fuga dai quattro angoli del mondo nè dalla ricostruzione di un quadro attendibile delle condizioni da cui fuggono. Un giovane profugo somalo incontrato qualche mese fa a Roma ha usato un’immagine efficace per spiegare la banalità di questa idea: se mi trovo nella foresta e vedo un uomo che scappa la prima cosa che l’istinto mi dovrebbe dire di fare è cercare di vedere da cosa sta scappando. Senza una conoscenza, pur vaga, dei paesi, dei governi, delle condizioni materiali che costringono i profughi alla fuga, qualsiasi tentativo di regolare con giustizia ed efficacia il loro arrivo in Europa, così come qualsiasi progetto di integrazione risultano abortiti in partenza.
Sono queste alcune delle ragioni che ci hanno spinto ad invitare Alessandro Leogrande a fare tappa a Nonantola, la sera del 28 maggio, per presentare La frontiera (Feltrinelli 2015). E sono queste, credo, alcune delle ragioni che hanno spinto lui a dedicare, dopo Il naufragio e dopo Uomini e caporali, anche l’ultimo lavoro di scrittura e inchiesta al Mediterraneo, faglia dove le tensioni e i conflitti del pezzo di mondo che scappa trovano un drammatico punto di rottura.
La frontiera cuce insieme le storie di esilio e fuga, di naufragi e approdi, che Leogrande ha raccolto in questi anni in un lavoro di ricerca che si colloca al confine tra inchiesta, narrazione e collaborazione diretta a iniziative di intervento sociale. Un lavoro ibrido fatto di appunti di viaggio, resoconti di incontri, conversazioni con immigrati arrivati di recente o residenti in Italia da lungo tempo. Il tutto rimontato in un reportage narrativo che non solo cerca di ricostruire le cause della violenza che molto spesso determina la partenza o si scatena durante la fuga, ma anche di capire quale sia la narrazione più efficace per provare a dipanare eventi che nel loro groviglio di lutti e oppressione rischierebbero di rimanere incomprensibili.

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Ogni esodo è fatto dalla somma di singoli, irriducibili, esodi. Come quello di Alì, in fuga dal Darfur e dalle bande di predoni che assaltano i villaggio per rubare il bestiame. La notte passata nel bosco in attesa che i predoni si allontanino e nel buio del nascondiglio la decisione di non rientrare a casa, ma di proseguire il viaggio verso nord. O come quello di Gabriel, cresciuto in una famiglia dell’elite intellettuale di Asmara durante gli anni dell’occupazione etiope in Eritrea, militante del Fronte di liberazione, fuggito in Italia quando si accorge che i compagni di partito stanno edificando una dittatura peggiore di quella che cercano di rovesciare. O come quello di Abdel, baby scafista, salpato una mattina dal porto di Alessandria come pescatore, finito a traghettare come passeur un barcone di immigrati fino al limite delle acque internazionali, tratto in arresto da una nave della marina militare e consegnato alla polizia di Catania.
A fianco di queste avventure individuali, Leogrande ricostruisce anche grandi drammi collettivi, come il naufragio dell’ottobre del 2013, ricostruito attraverso la ricomposizione di diverse voci e diversi sguardi: quello di Syoum, esule eritreo che vive in Italia da quando era ragazzino, che riscopre le proprie radici e ricostruisce il quadro dell’emorragia eritrea proprio dopo il naufragio del 2013; quello di Costantino, pescatore residente a Lampedusa, che si trovava in mare il giorno del naufragio; quello di Gabriel che invece ha militato nelle fila del Fronte di liberazione eritreo e che è scappato all’inizio degli anni ’90 quando ha visto che il leader del Fronte stava costruendo un regime peggiore di quello che aveva contribuito a ribaltare.
Ma anche la ricostruzione dell’industria dei sequestri in Sinai, o le stragi, probabilmente molto maggiori, che avvengono prima del mare, come i migranti schiavizzati durante la guerra di Libia, usati come bestie da soma al fronte, o come “bomba” umana contro l’Europa. Il viaggio del Papa a Lampedusa; Patrasso, snodo centrale per l’immigrazione orientale, soprattutto afghana, ma anche punto di innesto dell’affermazione del neofascismo greco di Alba Dorata.
La frontiera non pretende di spiegare la storia con le storie, ma al tempo stesso non rinuncia al tentativo di comprendere le cause generali dell’esplosione, politica ed economica, di alcune delle aree del mondo da cui partono gli uomini e le donne che chiedono protezione all’Europa. Su tutte l’Eritrea, paese da cui proviene la maggior parte dei profughi giunti in Italia nel 2015, a cui il libro dedica le pagine più appassionanti.
Perché su quella barca erano tutti eritrei? È a partire da questa domanda, all’indomani del naufragio che nell’ottobre del 2013, a largo di Lampedusa, costò la vita a oltre 360 persone, che Leogrande ricostruisce la natura della dittatura di Isaias Afewerki, eroe della guerra di liberazione contro l’Etiopia e oggi cinico burattinaio di uno dei regimi più soffocanti dell’Africa centrale.

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L’unico elemento che accomuna gli uomini e le donne a cui Leogrande dà la voce o che induce al racconto, l’unica generalizzazione che è possibile trarre dalle storie del loro viaggio, è l’attraversamento di un confine. Il resto, non meno importante per decifrare la vera natura delle frontiere contemporanee, è tutto da indagare. Il resto è fatto di viaggi che durano anni, che subiscono battute d’arresto, che procedono di tappa in tappa in relazione alla casualità di un incontro, ai soldi che si è in grado di mettere insieme per raggiungere la tappa successiva. Perché i viaggi, anche quelli sui camion, nei camper, a piedi in mezzo al bosco, o attraverso il mare su gommoni e pescherecci fatiscenti, costano molti, a volte moltissimi soldi. Così tanti soldi che, se esistessero modi per entrare legalmente in Europa, basterebbero ad acquistare biglietti aerei in business class e che invece alimentano un enorme indotto di economia illegale o criminale. Se qualcuno blocca una via di fuga, con un muro o con la burocrazia, il fuggitivo non arresta la sua fuga. Non può arrestarla. È allora che qualcuno si ingegna a trovare un nuovo punto di passaggio: scafisti, passeur, organizzatori di viaggi che, a volte in modi infami e disumani, a volte solo per poter attraversare a loro volta la frontiera a prezzi ridotti, inventano alternative all’assenza di ingressi sicuri e legali.

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