Gli anni in cui viviamo, come dicevamo a proposito del nome del comitato, sono anni di grande confusione, di grandi contraddizioni, di grandi conflitti e non ci sono strade semplici o già tracciate che consentano di evitare confusione, contraddizioni e conflitti. Anche per questo il percorso di “Anni in fuga”, da quando è cominciato, è stato caratterizzato da accelerazioni, momenti di stallo, interruzioni e ripartenze. Un percorso accidentato e ambizioso che non sappiamo ancora dove ci porterà.

Nel riassunto delle puntate precedenti ci eravamo fermati alla prima fase, una fase per così dire culturale, di dissodamento del terreno, fatta di incontri pubblici organizzati allo scopo di raccogliere informazioni sui fenomeni delle migrazioni forzate e su quanto si genera, a livello giuridico, politico, culturale, “pedagogico” e sociale, nella relazione tra chi scappa e chi “accoglie”. Parallelamente l’obiettivo rimaneva quello di iniziare a immaginarsi forme di accoglienza che non escludessero il territorio (sarebbbe a dire la realtà) come quasi sempre avviene quando a occuparsi dei profughi sono soltanto le istituzioni e i grandi soggetti del terzo settore. Uno dei nodi centrali intorno a cui ruota il lavoro del comitato è proprio il rapporto tra “pubblico” e “terzo settore”, un rapporto che secondo noi va profondamente rivisto (per esempio nelle modalità di selezione delle organizzazioni chiamate a collaborare col pubblico, o nell’autonomia critica che tali organizzazioni hanno il dovere di mantenere, per svolgere realmente la loro tanto decantata funzione di “sussidiarietà”. Ma ci saranno altre occasioni per discuterne).

Questa fase ha subito una prima battuta d’arresto (e una doccia fredda) nel momento in cui lo scorso autunno l’Unione dei comuni del Sorbara ha deciso di partecipare in cordata con la Provincia a un bando Sprar che affidava a un unico ente la gestione di 100 posti dislocati su tutti i comuni dell’Unione.

Questa decisione conteneva secondo noi un elemento positivo e uno negativo. Quello positivo era l’adesione del Comune di Nonantola al programma Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Senza entrare nei dettagli tecnici (la cui complessità rappresenta forse uno dei principali nodi critici di tutto il sistema dell’accoglienza), il punto di forza di questa scelta, indubbiamente coraggiosa, stava nel fatto che con quest’atto l’Unione e insieme a essa il Comune di Nonantola, aderivano, in maniera volontaria, a una procedura che mantiene in capo agli enti locali la responsabilità dell’accoglienza. Il lato negativo è che il bando era scritto in modo tale che tagliava fuori qualsiasi partecipazione allargata dei territori, dei gruppi che già ci lavoravano e della cosiddetta società civile. Sarebbe a dire della sostanza stessa con cui stavamo cercando di costruire il comitato “Anni in fuga”. Un bando, come purtroppo spesso capita, scritto principalmente in un’ottica di ottimizzazione delle risorse e di efficienza degli apparati burocratici, tanto delle organizzazioni pubbliche che di quelle del privato sociale, che chiedeva a un unico ente gestore, un progetto all inclusive, chiavi in mano per gestire 100 uomini e donne che avevano presentato domanda di protezione allo stato italiano. Il tutto nella speranza, presto frustrata, che in questo modo la pressione sui comuni dell’Unione per accogliere nuovi richiedenti asilo potesse esaurirsi.

E invece la pressione non solo non si è esaurita, ma è aumentata proprio in quelle settimane. A Nonantola come dappertutto, la Prefettura ha iniziato a cercare strutture ricettive dove “piazzare”, sotto la responsabilità di un ente accreditato, altre persone che avevano fatto richiesta d’asilo. Di tutte, la peggiore forma di accoglienza che si possa mettere in piedi. La peggiore perché calata dall’alto, perché nella sostanza esclude chi amministra i territori, perché fondata solo sulla spinta dell’emergenza e perché molte volte impermeabile al buon senso oltre che alle necessità delle comunità che “accolgono” come delle persone che vengono “accolte”.

È in questa fase che, anche su sollecitazione dell’amministrazione, il lavoro del comitato è ripreso in modo serrato. Da novembre dello scorso anno, abbiamo iniziato a trovarci, in formazione più allargata (con l’aggiunta della Parrocchia, degli scout Agesci e della Caritas diocesana) per capire che alternativa eravamo in grado di proporre all’amministrazione di Nonantola.

Scartata subito l’ipotesi di candidarci direttamente alla gestione dei richiedenti asilo – non ne avremmo avuto le forze organizzative e finanziarie, oltre al fatto che non eravamo nati per questo scopo – per qualche settimana abbiamo riflettuto sulla possibilità di dare vita a una Ats, associazione temporanea di scopo, costituita dai gruppi che già aderivano al comitato, da altri che si fossero fatti avanti e da una cooperativa o un’altra organizzazione più grande e strutturata di noi interessata a sperimentare una forma “partecipata” di accoglienza.

Un progetto ambizioso, forse troppo per i quattro gatti da cui era composto il comitato, a cui però i quattro gatti non si sarebbero sottratti se avessero trovato un’organizzazione (Caritas? Caleidos?) disposta a sperimentare insieme qualcosa di alternativo al modo tradizionale di “fare accoglienza”. In quel frangente il Comune di Nonantola, in particolare il sindaco e gli assessori che avevano seguito il percorso fin dal suo inizio, si è dimostrato sufficientemente coraggioso per appoggiare questo processo (nel caso fossimo riusciti a metterlo in moto), ma non abbastanza per assumersi la responsabilità di “tirarlo”. CONTINUA

P.S. Lo sappiamo: questi appunti possono risultare freddi e noiosi, anche per chi scrive, non solo per chi legge. Ma “metterci la testa”, come insistiamo a dire quando descriviamo il lavoro che stiamo facendo, significa anche sbatterla contro gli aspetti noiosi e freddi. E cercare di capirli. E lasciarne traccia. Verranno, speriamo presto, anche fotografie più calde, vive e vitali, fatte di storie, volti e nomi, come quelli dei 35 richiedenti asilo che nel frattempo sono arrivati a Nonantola e di chi ha iniziato a conoscerli.

(Luigi Monti – comitato “Anni in fuga”)