Nel riassunto delle puntate precedenti, a uso nostro (per non perdere la trebisonda) e di chi si sta aggregando e si aggregherà in corso d’opera al comitato “Anni in fuga”, eccoci arrivati all’ultima puntata. Dopo una prima fase di lavoro per lo più “culturale” e una seconda in cui abbiamo tentato, per ora senza riuscirci, di costruire forme di accoglienza ai profughi che coinvolgessero direttamente il territorio, eccoci al presente. Un presente confuso, contradditorio, pieno di incognite. A Nonantola, come dappertutto. Un presente che però lascia intravedere elementi inediti, sviluppi imprevisti. E l’imprevisto, se si guarda alla macchina dell’accoglienza, è già di per sé un elemento positivo. Pur non avendo ancora ben chiaro che cosa saremo in grado di mettere in piedi, sappiamo per certo quello che vogliamo evitare. Ovvero che a Nonantola l’accoglienza ai profughi si limiti al rispetto formale delle regole (regole la cui equità e razionalità è peraltro fortemente dubbia. E non perderemo occasioni di studiarle, analizzarle e metterle in discussione).

Certo il rispetto formale delle regole è la condizione minima necessaria per procedere. Ma se ci guardiamo intorno, se guardiamo ai problemi, ai conflitti, alla disgregazione che la cosiddetta accoglienza sta producendo un po’ dappertutto, è illusorio credere che il rispetto della forma sia una condizione sufficiente. Bisogna inventarsi qualcos’altro, sperimentare modelli diversi. Solo così si può sperare di individuare strade che vadano oltre alle attuali (ingiuste) leggi sull’immigrazione e alle attuali (irrazionali) pratiche che regolano l’accoglienza.

In questo momento stiamo lavorando alla costruzione di un tavolo di lavoro, il più allargato possibile, che comprenda il Comune, il comitato “Anni in fuga” e le associazioni del territorio che hanno il desiderio di mettersi in gioco in questa partita, la Caritas diocesana e le cooperative che a Nonantola gestiscono l’accoglienza dei richiedenti asilo. E se e quando sarà possibile, i “profughi” stessi.

Un tavolo che governi (con intelligenza, buon senso, piacere della sfida) la macchina dell’accoglienza e che non si lasci governare da essa. Un tavolo che sappia produrre discorsi (documenti e protocolli) e azioni (iniziative di integrazione) capaci di arginare, se non impedire, quei processi di alienazione, disumanizzazione, disgregazione che le istituzioni e le procedure formali, se lasciate a loro stesse, producono quasi automaticamente.

In questa partita, un ruolo inedito ha deciso di provare a giocarlo la Caritas diocesana che potrebbe sparigliare positivamente le carte, almeno per una parte delle persone accolte a Nonantola: i profughi attualmente alloggiati a Redù e gestiti dalla cooperativa Ceis.

In questi anni abbiamo visto quasi dappertutto che gli accordi tra gli enti gestori e la Prefettura rimangono chiusi in se stessi, invisibili alle persone e ai territori in cui trovano compimento come ai comuni che li amministrano (anche quando magari i comuni sono parte in causa, come nel caso del programma Sprar). Questa invisibilità delle persone “accolte” e dei conflitti che sollevano viene spesso letta positivamente, come indizio che le cose procedono regolarmente e senza intoppi. E invece è proprio in quella invisibilità che secondo noi si annidano i rischi maggiori. Ovvero che l’accoglienza si trasformi in una campana di vetro e di inutile attesa, dove chi accoglie e chi è accolto non hanno reali occasioni di incontro (e scontro), dove amicizie, relazioni, occasioni di lavoro, uso vivo della lingua, insomma dove la vita vera e quindi la possibilità di “integrarsi” non hanno corso.

La Caritas e il Ceis – non sappiamo se con un accordo formale o con un patto tra galantuomini della stessa “ditta”, come don Milani chiamava la Chiesa – hanno definito una collaborazione inedita e sperimentale per una parte dei profughi che la cooperativa gestisce a Nonantola, proprio per provare a rompere quella campana di vetro che il solo rispetto formale delle regole genera inevitabilmente. La Caritas, che da oltre un anno partecipa attivamente al percorso di “Anni in fuga”, ha offerto alcune ore di un operatore per coordinare le relazioni e gli scambi tra la cooperativa, il Comune e la società civile del territorio. Oltre a ciò si è detta disposta a contribuire alle spese vive di gestione (ad esempio finanziando una parte degli affitti dei futuri appartamenti). In cambio di tutto ciò chiederà al Ceis standard più alti di accoglienza e criteri generali di gestione che coinvolgano il più possibile il territorio.

A volte ci viene da notare inquietanti somiglianze tra i processi di istituzionalizzazione dei malati di mente prima dell’apertura dei manicomi e i processi di istituzionalizzazione dei profughi “trattati” dall’industria dell’accoglienza. Perché l’istituzione non schiacci le persone che dovrebbe servire bisogna inventarsi qualcosa di nuovo. Inserire granelli di sabbia nei meccanismi della macchina. Nella speranza che la macchina diventi meno irrazionale e alienante di quanto non sia oggi.

(Luigi Monti – comitato “Anni in fuga”)