di Jack Vaccari

Fra gli obiettivi di “Anni in fuga” c’è anche quello di dimostrare che si può essere accoglienti, aperti e generosi, senza per questo ingrossare le fila della solidarietà retorica, vittimistica e buonista che in fondo rappresenta l’altra faccia del sospetto e della chiusura razzista. E che fa altrettanti danni.
Per questo abbiamo pensato di ricordare qui la Giornata mondiale del rifugiato con la scheda (la seconda traccia) di “Pane e cioccolata”, un film che oltre al grande merito di far ridere, ha anche quello di presentare la condizione degli immigrati sotto un luce inedita: il disadattamento è visto non solo come condizione di fragilità che è necessario colmare con la solidarietà e l’accoglienza, ma anche come dichiarazione di autonomia e libertà. Sia dalla cultura di provenienza che da quella che “l’integrazione” vorrebbe imporre. (Comitato Anni in fuga)

Svizzera anni ’70, Nino Garofalo è un migrante Italiano che ha lasciato moglie e figlio per cercare lavoro nella ricca Svizzera. Nino ha voglia di integrarsi, di trovare un lavoro stabile, di ottenere l’ambito permesso di soggiorno e finalmente ricongiungersi alla sua famiglia per rifarsi una vita in quel paese che, a differenza dell’Italia, è così ordinato e dove tutto funziona bene.
Una storia simile a quella di mezzo milione di italiani che in quegli anni raggiungevano la Svizzera soprattutto dal meridione. Per gli svizzeri la manodopera era una necessità: loro 5 milioni di persone con un’economia fiorente e tante attività da portare avanti, gli Italiani molti di più e bisognosi di lavorare.
Domanda e offerta sembrerebbero incontrarsi in maniera perfetta. Eppure sappiamo bene come in quel contesto fiorissero la diffidenza, il sospetto e l’insofferenza per i “meridionali” d’Europa: turchi, italiani, greci, spagnoli. Proprio alla fine degli anni ’60 le idee xenofobe delle campagne anti “inforestierimento” (Überfremdung in tedesco), agitavano quella terra apparentemente pacifica e per gli stranieri la vita si fece ancora più difficile.
Nel film questa situazione, ingiusta e tragica, è raccontata con ironia, poesia e apparente leggerezza attraverso le vicende che Nino affronta e che, come in un inferno dantesco dell’immigrazione, lo conducono di girone in girone verso i bassifondi della clandestinità. Sono molte le scene che raccontano, senza ostentazione, l’atmosfera che si doveva respirare nella Svizzera di quegli anni. L’intolleranza degli svizzeri trapela dagli sguardi sospettosi dei frequentatori di un parco che squadrano Nino, il diverso, con severità; dalla subdola denuncia alla polizia per una pisciatina innocente e liberatoria del protagonista; dall’indifferenza del datore di lavoro che preferisce voltare le spalle al proprio dipendente nel momento del bisogno.

Altre scene, invece, mettono in luce le difficoltà quotidiane vissute dai lavoratori stagionali: la situazione abitativa fatta di monolocali condivisi e camerate affollate; il divieto di portare in Svizzera la famiglia e quindi la necessità di dover nascondere i figli nei piccoli appartamenti; il senso d’inferiorità provato dai migranti italiani nei confronti dei cittadini svizzeri; la difficoltà nell’ottenere un contratto stabile e le condizioni inumane del lavoro nero.
Il film, oltre a raccontarci in maniera caricaturale ma verosimile la situazione dei migranti italiani in Svizzera, ha un ulteriore piano di lettura. Si potrebbe dire che abbia due anime. Le anime sono quella popolare ma sensibile e intelligente di Manfredi, che dà credibilità al personaggio di Nino, anche quando è coinvolto nelle vicende più assurde e quella intellettuale e profonda del regista Franco Brusati. Non si tratta quindi di un semplice film di denuncia che racconta la dura vicenda di un uomo, ma di un’opera articolata che arriva a parlare della condizione umana e in particolare del senso di smarrimento e di “non appartenenza” che, in maniera più o meno profonda, ognuno di noi ha sperimentato. Nino siamo noi e ci imbarazziamo con lui sotto lo sguardo penetrante dell’algido svizzero, fremiamo sulla sedia quando alcuni biondissimi energumeni insultano la nostra nazionale di calcio e, infine, con lui ci poniamo l’inquietante domanda: Chi so’ io?
Cominciando dal titolo, che oppone il comune ma fondamentale pane alla sublime e (fatico ad ammetterlo) superflua cioccolata, Brusati costruisce il senso di smarrimento del protagonista, disseminando il film di una serie di contrasti. Molte sono le situazioni in cui Nino si trova a dover scegliere se identificarsi nell’intransigente ma efficiente rigore elvetico o nel disordinato ma familiare folklore italico. E, alla fine, di nessuno dei due schieramenti si sente parte.
La visione del film ci ha stimolato a metterci nei panni di chi migra in un paese straniero e, sebbene sia noto che l’Italia prima di essere meta di immigrazione è un popolo di emigranti, ci ha fatto una certa impressione vederci dall’“altra parte” o forse ci ha fatto capire che la divisione tra noi (che ospitiamo) e loro (che arrivano) non ha confini così netti e che, in alcuni casi, il senso di straniamento e di “non appartenenza” non sia poi così negativo.

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