di Fabrizio Battistelli

Giornali, televisione e social sono fra i principali responsabili della difficoltà di interazione e integrazione tra italiani e stranieri. Rincorrono e amplificano paure e stereotipi, alimentano senso comune e ansie irrazionali. Non approfondiscono, non aiutano a comprendere. Codificano un pensiero-massa che è diventato l’unico bacino da cui le persone traggono argomenti di discussione. Una discussione che diventa immediatamente lagna, livore, accuse generiche, astratte e non circostanziate alla politica. Il contrario insomma della “critica”.
Non cerchiamo quindi nei giornali, nella televisione e nei social informazioni o analisi utili al nostro lavoro culturale e di integrazione, ma solo sintomi e indizi che confermino o al contrario che mettano in crisi le idee che andiamo costruendo nel nostro lavoro territoriale. (Comitato “Anni in fuga”) 

Di seguito alcuni passaggi di un intervento di Fabrizio Battistelli, sociologo alla Sapienza di Roma, uscito sull’Avvenire del 20 agosto 2016

[…] Passando invece alla realtà di tutti i giorni, e quindi all’applicazione pratica dei concetti alla situazione italiana di oggi, il secondo rischio è che il mondo dei diritti e della politica rimanga una cosa e il mondo delle relazioni tra le persone un’altra. Proprio questo mi sembra sia il punto richiamato da alcuni nello schieramento progressista, specie se hanno alle spalle un’esperienza di amministratori locali: il pericoloso scollamento dei grandi schieramenti politici e, in particolare, del centrosinistra dalla base sociale e l’ancora più minacciosa prospettiva che l’insicurezza economica e psicologica dei ceti popolari diventi terreno di coltura per demagoghi e xenofobi secondo una tendenza che si va purtroppo diffondendo in tutto l’Occidente. Se uno vive negli sterminati “non luoghi” che sono divenute le periferie delle nostre città, o se prende un mezzo pubblico e ci va, vede con propri occhi i sintomi di una crescente ostilità tra italiani e stranieri, tra penultimi e ultimi. Bisogna fare qualcosa, subito, per prevenire uno scenario di conflitto. O meglio la politica deve unirsi a coloro che, in quanto individui, associazioni del volontariato, oratori e parrocchie stanno già facendo più di qualcosa per aprire una prospettiva «interculturale», come organizzare centri estivi per i bambini, insegnare l’italiano agli immigrati, far sperimentare la convivenza tra diversi, coltivare le strisce di orti ai bordi delle strade, colorare il cemento dei viadotti. E spiegare ai residenti i motivi, visto che le autorità non lo fanno, quando lo Sprar sta per aprire in zona un centro per i rifugiati e i richiedenti asilo.

Dato che l’economia e la società hanno due livelli, uno macro e uno micro, dal punto di vista dei cittadini serve poco continuare a parlare solo e soltanto degli aspetti macro dell’immigrazione, dei (naturalmente legittimi) diritti, doveri, obblighi internazionali dell’Italia, così come dei vantaggi che le tasse pagate da un milione e mezzo di lavoratori immigrati e centinaia di migliaia di partite Iva apportano alla nostra spesa pubblica e alle nostre pensioni. È almeno altrettanto necessario parlare degli aspetti micro, cioè quelli di tutti i giorni e che interessano le persone e le famiglie, tanto di quelli positivi quanto di quelli problematici. […]

Un ultimo errore è quello di rifiutare l’idea che le persone abbiano un’identità nel senso della spontanea appartenenza a qualcosa di fisico e insieme di simbolico. Ciò che è da rifiutare è il rifiuto delle differenze proclamato da certi personaggi, non l’attaccamento alla propria identità. E dal dialogo tra quest’ultima e le differenze che scaturisce la sintesi più avanzata. Così come è da rifiutare l’identità fondata sul sangue, cioè la (solitamente immaginaria) appartenenza a una stessa stirpe. Mentre deve essere accettata l’appartenenza al territorio. Tutta la modernità e tutto il pensiero occidentale (pure progressista) riconoscono l’importanza del territorio, anche perché esso è la categoria sociale più aperta e inclusiva che esiste. Come dice lo Statuto della Catalogna: sono catalani tutti coloro che abitano e operano nel territorio della Catalogna. Quindi se gli abitanti di una città e i residenti di un quartiere sono affezionati al proprio territorio non vanno colpevolizzati, al contrario vanno sostenuti. I poteri pubblici sono chiamati a incoraggiare la condivisione con gli altri sostanziandola con le risorse (politiche e materiali) necessarie per vivere bene. E comunque a una soglia di decenza che porta a desiderare che anche gli altri ne usufruiscano.