di Anna Bravo. Incontro con Luigi Monti
Chi l’ha detto che la storia si fa solo con la guerra e la forza? Sono gli storici che tendono a dirlo. La storiografia descrive quasi sempre i fatti umani come eventi dettati dalla spinta di forze contrapposte, dalla violenza e nella maggior parte dei casi dalla guerra.
Anna Bravo, che ha insegnato storia sociale a Torino, è una delle pochissime eccezioni. Tra i motori della storia contempla anche l’azione, il pensiero e l’intervento di chi al contrario ha operato per evitare i conflitti, la violenza, l’uso della forza. Ha scritto un libro, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato (Laterza 2013), che guarda il ’900 proprio dalla prospettiva di chi, consapevolmente o meno, ha operato per evitare la morte di altri uomini e donne. Un libro importante, non solo per la bellezza delle storie raccontate – gli episodi di sangue risparmiato durante la Prima e la Seconda guerra mondiale; Ghandi; il Kossovo e la guerra jugoslava; il Tibet – ma anche per il ribaltamento storiografico a cui invita la Bravo e che si potrebbe applicare a quasi tutte le pagine di storia. Compresa la vicenda dei “ragazzi di Villa Emma” di Nonantola, uno degli esempi più luminosi di “sangue risparmiato”.
Anche per questo probabilmente la Fondazione Villa Emma ha invitato per il secondo anno Anna Bravo a intervenire al convegno annuale, che si terrà dal 16 al 18 giugno 2016 al Cinema-teatro Troisi. Di seguito un’intervista uscita un paio d’anni fa sulla rivista “Gli asini” (n.19, gennaio-febbraio 2014)
Itinerario storiografico
C’è un itinerario, non sempre consapevole, nella mia ricerca storica, che mi ha condotto dalla storiografia maggioritaria fondata sul “fatto compiuto” a quella purtroppo marginale, non solo in Italia, del “fatto evitato”, una storiografia che si rifiuta di trovare il proprio fondamento epistemologico esclusivamente in ciò che può essere computato – come ad esempio guerre e morti – e per ciò imposto. Un approccio che forse ha una presa scientifica inferiore, ma una presa sulla verità di gran lunga più profonda.
Questo itinerario parte, io credo, dagli studi giovanili sulla Resistenza nei quali non avevo la capacità e la forza di riconoscere alcuni limiti che trovavo poi in alcuni amici partigiani. Un po’ li intuivo, quei limiti, un po’ non li volevo vedere, condizionata dal mio amore per la Resistenza e per i suoi attori. Alcuni amici partigiani mi raccontavano degli episodi sapendo di poter contare sul fatto che io non li avrei resi pubblici. E non l’ho fatto. Però avrei dovuto scandagliare più a fondo certi aspetti. Ma non ne ho avuto il coraggio, la lucidità, forse la maturità.
Il tema della forza, della violenza, è riemerso con prepotenza negli anni in cui “militavo” in Lotta continua. Anche in quel caso, fino ad un certo periodo non ho avuto la capacità, per timidezza o “spirito di corpo”, di prendere una posizione pubblica. Poi però, il coraggio l’ho trovato. Perché ormai una cosa appariva indiscutibile: non si può andare avanti, anche quando si sia “dalla parte giusta”, con l’inconsapevolezza delle conseguenze della violenza sulle persone; non solo su quelle che colpisci ma anche su te stesso e su chi è intorno. La violenza diventa in quel caso un fattore deformante di tutta una collettività.
Mi colpì moltissimo la lettura dei ricordi della guerra di Spagna di Simone Weil, che, avendola conosciuta da vicino, la definiva più o meno in questi termini: “fra gli uomini armati e la popolazione disarmata c’era un abisso in tutto simile a quello che separa i poveri dai ricchi. Gli armati erano arroganti e avevano l’aria di quelli che comandano; la gente senza armi era intimidita, sottomessa, a disagio”. Lei stessa, arruolatasi per una causa che rimaneva giusta, verificava come le armi segnavano una frattura nella democrazia interna al Fronte Popolare.
Anche i servizi d’ordine, all’interno dei gruppi e dei movimenti politici di cui ho fatto parte, avevano effetti simili: espropriavano la parte non “militarizzata”. A quel punto, mi è venuto abbastanza naturale iniziare una ricerca, non solo accademica, sulla violenza.
Non è stato semplice. L’accusa di “revisionismo” me l’hanno fatta, e non solo per In guerra senz’armi. E ovviamente non faceva piacere. Per non parlare del metodo, che era ancora da costruire, e lo è anche adesso.
Tra gli storici c’è un’implicita accettazione dell’idea che siano la violenza e la guerra che fanno la storia. In realtà, come diceva Gandhi, se fosse stata egemone la guerra noi non saremmo vivi. Quindi, la domanda vera, anche da una prospettiva storiografica, è chi abbia risparmiato il sangue nelle grandi vicende storiche e come abbia fatto.
Le storie di sangue risparmiato bisogna saperle riconoscere, bisogna saperle vedere. Anche per me non è stato immediato. Oltre al fatto che una scuola o una tradizione storiografica a cui appoggiarsi sostanzialmente non esistevano, in Italia c’era anche poca ricerca: sulla protezione dei prigionieri alleati dopo l’8 settembre, il libro da cui ho tratto più notizie e richiami archivistici è di uno storico britannico, è uscito nel ’91 ed è stato tradotto in italiano solo due anni fa (Roger Absalom, L’alleanza inattesa. Mondo contadino e i prigionieri alleati in fuga in Italia (1943-1945), Pendragon 2011).
Anche all’estero questo approccio non è stato tematizzato con forza. È stata la forza interna di certi episodi che mi fatto sentire la necessità di cercare un quadro in cui ricomporli. Ho trovato parecchio sulla prima guerra mondiale nella storiografia americana, alcuni autori raccontano molto efficacemente le tregue autoorganizzate tra i soldati e la fraternizzazione fra le opposte trincee. In Italia gli studi che narrano queste vicende che a me entusiasmano le presentavano come parte di una “controstoria”, con i militari in veste di vittime. È un grande filone storiografico e letterario, ma i soldati non erano solo vittime, erano soggetti che agivano con coraggio, inventiva, discernimento, e gli episodi erano importanti in sé.
Resistenza civile, nonviolenza, sangue risparmiato
L’impianto del libro è percorso da un concetto che il femminismo ha usato molto fin dagli anni ’70 e ’80: il concetto di “genealogia”. Al di là del senso traslato dal suo significato “biologico”, alcune intellettuali cercavano un’origine diversa del proprio patrimonio culturale, diversa da quella, tutta maschile, con cui la mia generazione è stata allevata. Sul piano storiografico si traduceva ad esempio a un’attenzione anche al piano simbolico della storia, non solo quello “fattuale”. Uno slittamento fondamentale. Poi forse non si è abbastanza messo in evidenza il fatto che si trattava di una scelta del tutto soggettiva: la genealogia è qualcosa che cambia, che si modifica, che è possibile manipolare, per questo è importante analizzare i modelli (reali o “inventati”) cui ci si richiama e gli effetti che queste scelte hanno sull’autoimmagine, la memoria, la storia.
Genealogia è un concetto operativamente ricco. Se non ci si sforza di rintracciare, attraverso gli strumenti della storia, degli esempi e delle continuità, il proprio pensiero è più debole.
Ecco allora che guardare la storia sanguinosa del ‘900 in questi termini, alla ricerca non del sangue versato, ma di quello risparmiato, mi ha fatto scoprire non solo un “altro ‘900”, forse minoritario ma non per questo meno essenziale per la storia (e forse per la sopravvivenza) dell’umanità, ma anche un ramo inedito della pratica nonviolenta capace, io credo, di rinnovarne la forza e la presa sul presente.
Sotto questo aspetto le categorie di “nonviolenza”, “resistenza civile” (sulle quali ho lavorato in passato) e “sangue risparmiato” non sono identiche, né del tutto sovrapponibili. Sono parenti, appunto, ma la loro “genealogia” merita di essere dettagliata, mentre lo stesso movimento nonviolento non sempre ha saputo riconoscere nelle vicende della storia le proprie differenti genealogie.
La nonviolenza ha una marcatura teorica forte che viene da Tolstoj, Thoreau, Gandhi, per citare i pensatori nonviolenti più famosi, e ha nel tema della “trasformazione interiore” il suo tratto distintivo più importante. La nonviolenza è una politica fattiva che però implica la presenza, se non di una ideologia, di una teoria e di una metodologia.
La resistenza civile è una cosa diversa. È stata tematizzata alla fine del secolo scorso, ma non ha un vero e proprio nocciolo “teorico”. Per questo Jacques Sémelin, lo storico francese che ha messo a fuoco il concetto, ne dà una definizione molto generale. La resistenza civile ha preso forma perché la gente non possedeva le armi, o non ne aveva l’accesso. In molti dei casi che ho raccontato, se avessero avuto le armi, forse le avrebbero usate. Prendiamo il caso dell’Italia del ’43: le donne non avevano accesso a fucili e granate. Magari non le avrebbero volute o sapute usare, ma non è certo. In altri casi le persone decidono consapevolmente di limitare la violenza. Questo anche tra i resistenti. In Emilia Romagna alcuni “vecchi compagni” – quelli con una formazione socialista-umanitaria alla Prampolini – non volevano uccidere. «Non mancavano certamente di coraggio!» racconta un commissario politico, ma non volevano “sparare all’uomo”. L’idea di sparare addosso a un essere vivente come loro… non ce la facevano. Luciano Casali, uno storico di Bologna, mi ha fatto conoscere la documentazione. Anche per questo, nei Gap, hanno cercato di mandare avanti i giovani, una scelta che ebbe una portata molto grande, e insieme il grande rischio dell’assuefazione alla violenza, di cui parla un opuscolo diffuso sulle Funzioni del commissario politico, che sempre Casali mi ha fatto conoscere.
In questo senso la resistenza civile è una cosa in cui non sempre c’è una esplicita presa di posizione nonviolenta. Spesso non c’è. Qualcuno può essere, magari per ragioni religiose, alieno dalla violenza, ma non c’è una teorizzazione della nonviolenza come mezzo per ottenere un obiettivo politico o impedirne altri.
Durante la risalita della penisola, i nazisti volevano avere davanti territori il più possibile vuoti, quindi costringevano le popolazioni ad abbandonare le città. A Carrara le donne – tra cui le donne dell’Udi – si sono opposte e sono riuscite a impedire che si sfollasse totalmente la città. Non so se si possano definire nonviolente. Semplicemente hanno usato ciò che avevano a disposizione: cioè la forza d’urto di tanti corpi femminili tutti insieme. A cui si è aggiunto il valore simbolico di una massa di donne in protesta: anche se la politica era quella del terrore, era difficile mitragliare delle donne inermi su una pubblica piazza. Che poi alcune di quelle donne fossero o no, nonviolente è difficile capirlo. Sicuramente erano “pacifiche”.
Questo concetto del sangue risparmiato, infine, l’ho usato per sviluppare di più il tema dell’agire in modo consapevolmente “protettivo della vita” anche in situazioni di guerra guerreggiata e anche senza possedere una teoria di riferimento. Alcune delle persone che “salvano” non hanno minimamente idea della tradizione della nonviolenza. Ho scelto questa definizione per dare conto di una cura e una difesa che riguarda i corpi, le vite concrete, non dei simboli o dei valori o degli obiettivi generali. Anzi, non c’è altro obiettivo che salvare. Mentre le pratiche di resistenza civile sono finalizzate a un risultato, qui l’obiettivo coincide con l’azione.
A volte si è trattato di accadimenti così rapidi, che non c’era tempo di elaborare un’etica dell’azione. Alcune “spiegazioni” delle donne che nel ’43 hanno agito per risparmiare sangue sono molto interessanti, sono per lo più legate alla relazione e non ai principi. Non dicono: “L’ho nascosto perché era giusto nasconderlo”. Ma piuttosto: “Se non lo nascondevo io, cosa faceva?”. Si riferiscono più al bisogno dell’altro che a un imperativo categorico. E i loro comportamenti sono “eversivi” al di là delle motivazioni, perché trasgredivano alle leggi in vigore, che erano quelle fasciste di Salò: siamo di fronte a una divaricazione tra “legittimità” – che è legata a un concetto di ciò che è giusto e ciò che è ingiusto – e “la legalità”. Non dimentichiamoci che in quegli anni l’azione morale di aiuto ai perseguitati era illegale, l’azione criminale di perseguitarli era la legge. Solo l’illegalità, per certi versi, era morale. Loro prendono la decisione morale. Ma non in modo politico, o ideologico – alcune sì, ma la maggioranza no. Loro prendono queste decisioni perché non credono ai criteri di innocenza e colpa sanciti dal potere e si trovano di fronte persone che non sanno cosa fare o dove andare. Per molte conta la fede religiosa, ma non tutte le donne religiose scelgono di proteggere chi è in pericolo, quindi bisogna accettare che non si può spiegare tutto. Mi ha sempre colpito Hannah Arendt, che collega i comportamenti morali all’attaccamento verso se stessi, al bisogno di potersi guardare allo specchio senza doversi vergognarsi delle proprie azioni.
Non si tratta esclusivamente di comportamenti femminili. Un contadino di cui ho letto nel libro di un inglese Eric Newby aveva speso quasi tutti i suoi soldi per mantenere dei prigionieri. E quando alla fine della guerra gli chiedevano perché, lui rispondeva: “Avevano bisogno. Cos’altro potevo fare?” E un altro dice: “era impossibile mandare via qualcuno se aveva fame”.
Si tratta di tre categorie – nonviolenza, resistenza civile e “sangue risparmiato” – che si costeggiano, a volte si sovrappongono. La nonviolenza è come un fiume con diversi affluenti. Fra questi, resistenza civile e “sangue risparmiato” hanno un rapporto di contiguità. La resistenza civile però è spesso usata per indicare azioni di massa, di gruppi, azioni organizzate, insomma: mentre il sangue risparmiato può valorizzare un popolo ma anche la singola persona, che ha nascosto quel prigioniero, quel soldato, quell’ebreo. È più centrato sull’individualità, sulla materialità dei corpi, e su motivazioni anche molto semplici. Tante parole sprecano i complici e i carnefici per giustificare quello che hanno fatto, tanto poche ne usano questi attori del “sangue risparmiato”. Forse perché non avevano avuto bisogno di meditare a lungo, era bastata loro la consapevolezza che i crimini restavano crimini anche una volta legalizzati dal governo e tollerati dalla maggioranza.
È successo addirittura che in alcuni casi “il sangue risparmiato” si sia elevato ad azione di massa. È il caso, raccontato da Hannah Arendt con tanto trasporto ne La banalità del male, e che anch’io ho ripreso nel mio libro, della Danimarca occupata e del salvataggio degli ebrei danesi ad opera della popolazione civile.
Arendt è innamorata di quella vicenda, la idealizza perfino. Ma d’altra parte la ricerca era ancora piuttosto indietro e anzi si può dire che sia lei a dare respiro, con quello scritto che le creò tante incomprensioni e dolori, alla ricerca intorno ai comportamenti in situazioni estreme.
Per questo idealizza la vicenda dei danesi che sembrano, nelle sue parole, un popolo compatto, monolitico nella loro capacità di opporsi allo strapotere nazista. Non era evidentemente così: c’era una consistente minoranza attiva. Però intorno a questa minoranza l’enorme maggioranza è stata al gioco, non si è sognata di fare la spia, o di rifiutare di dare aiuto. Questo ha creato i presupposti, l’ambiente per cui quell’azione impensabile, diventasse possibile (e ripetibile, in altre circostanze e sotto altre dittature!). E poi c’era questa cifra di inventiva e creatività che entusiasma e che era ammirevole: come l’immagine, che ho ripreso nel libro, degli ebrei danesi che sfuggono a una retata della gestapo su un corteo di taxi incolonnati al seguito di un finto funerale. È ironico: persone destinate alla morte di massa, anonima, si salvano usando il rito tradizionale di accompagnamento alla morte.
Crisi della nonviolenza
Penso che in parte, anche la difficoltà che da anni ormai vive il movimento nonviolento, non solo in Italia, non sia slegata dal mancato riconoscimento, fra le proprie genealogie, del “sangue risparmiato”. Riconoscere quell’origine, aiuterebbe a riconoscere la positività disseminata anche nella vita quotidiana. Perché come costrutto teorico-ideologico, fino alla caduta del muro la nonviolenza aveva un orizzonte storico che corrispondeva al proprio armamentario teorico. Il crollo dei regimi sovietici fra l’89 e il ’91 avviene sull’onda di grandi manifestazioni popolari largamente spontanee e inermi; ma nel 2001, con l’attentato alle Twin Towers molto cambia. La guerra – in Afghanistan, in Iraq – torna a essere presentata, oltre che come l’unica opzione, come normale risposta all’altrui violenza. Una normalizzazione contagiosa: dieci anni dopo si decide in pochi giorni di “intervenire” in Libia e poi in Mali, da due decenni l’Europa è in guerra dall’una o dall’altra parte del mondo.
Lo scenario cambia anche per la nonviolenza. Il terrorismo impone una totale o parziale clandestinità, non concepisce il negoziato, propaganda il culto della morte, compresa la propria, ricrea il nemico assoluto con cui non si deve scambiare parola. Dunque sfida gli strumenti elettivi della nonviolenza – l’esempio, l’educazione, la potenza simbolica dell’inermità, la costruzione della fiducia reciproca, che richiedono tutti una prossimità fisica e mentale fra i contendenti.
Avere nel proprio Dna e nella propria genealogia anche esempi come quelli che ho cercato di raccogliere nel libro aiuterebbe a riportare molto di più i principi alla vita ordinaria. A mutuarli in forme di resistenza al male, coerenti ai tempi e alle dinamiche che stiamo vivendo. Penso ovviamente alla scuola, dove mi piacerebbe, per esempio, che si desse spazio a notizie che danno un’idea di questa resistenza: giorni fa ho letto su “Repubblica” la storia di un Navy Seal, unico sopravvissuto a uno scontro con i taleban, che si era salvato perché era stato nascosto e curato da alcuni civili afghani, lui l’ha raccontato in un libro e ora ne stanno facendo un film: è una smentita operativa all’idea che in guerra non si può fare niente di “vitale”, e anche una smentita all’immagine di ferocia e di odio antioccidentale appiccicata agli islamici indistintamente. Però la notizia era nella pagina degli spettacoli, e dal titolo non era chiaro se si trattava di una storia vera. Io l’ho vista perché a forza di cercare queste cose ho come un automatismo che me le fa “acchiappare”.
L’ironia del “sangue risparmiato”
Studiando gli episodi raccolti nel libro (e altri che nel libro non ho raccontato) mi sono presto resa conto che tanti di questi hanno il tratto caratteristico dell’ironia, della creatività, oppure di un vero e proprio buon umore. In un certo senso ironia e creatività non rappresentano una caratteristica specifica delle azioni di “sangue risparmiato”, però le accompagnano quasi sempre.
L’ironia degli oppressi è una delle espressioni di autonomia più straordinarie e confortanti. Non dico niente di nuovo: nel pensiero filosofico ricorre l’idea della risata, esterna o interiore, come “sovrano distacco”, come capacità di prendere le distanze dal potere, il che significa preservare la “sovranità” sul proprio giudizio. Da Kant a Hegel. Quando Hegel definiva il femminile “eterna ironia della comunità”, lo intendeva grosso modo così (e lo temeva): la femminilità sta all’interno della comunità, dove è assoggettata al maschile, ma sta anche oltre, e da quell’oltre lo asseconda ma contemporaneamente trasgredisce alle norme con la sua ironia, se ne prende gioco. Hannah Arendt ha scritto che “bisogna poter ridere, anche se questo bisogno lo capiscono pochissime persone”.
E poi c’è una lunghissima tradizione popolare sul potente beffato e irriso dal contadino senza potere, ma astuto e ricco di inventiva.
Ho citato alcuni casi, quelli che mi avevano colpito i più, perché erano insieme i più simili e i più diversi: per esempio in Danimarca, nel ’44, in piena occupazione militare, i nazisti collocano a scopo intimidatorio due panzer nella piazza del municipio di Copenaghen, e poco dopo su una fiancata compare il cartello “Vendesi”; allora li spostano in un’altra piazza, e una combriccola di ragazzini si presenta a chiedere dove si vendono i biglietti della lotteria per vincerli. L’arma del ridicolo era pubblicizzata all’epoca dai pacifisti della War Resisters’ International come vera cifra dell’identità danese.
Ironia, umorismo e sfottò scavalcano migliaia di chilometri, come nel racconto di una ragazzina italiana che dice che i tedeschi si precipitavano sul luogo dove era caduto un aereo, e restavano “con un palmo di naso”, perché il pilota era già stato messo in salvo. Nella Parigi occupata del ’41-‘42 c’erano gruppi di giovani che passeggiavano in abbigliamento e atteggiamento da dandy sotto il naso dei nazisti, in segno di irrisione alla loro retorica virilista. L’ironia scavalca anche i decenni. Penso all’ironia e agli scherzi di Gandhi, al buon umore del Dalai Lama, ai monaci tibetani dell’istituto di buddismo di Nechung, cui i cinesi distribuiscono fogli chiedendo di scrivere un’autocritica, e loro ne fanno aeroplanini che lanciano per la stanza.
Penso alla resistenza “con un po’ di humour” dei kosovari albanesi in lotta con la Serbia, che nei primi anni novanta praticano forme di resistenza che assomigliano a una presa in giro: per esempio quando Milosevic introduce il coprifuoco, spengono le luci e mettono candele alle finestre, oppure scendono in strada per cinque minuti e non un attimo di più, così quando arriva la polizia non trova nessuno; lo stesso Milošević deve ammettere che in quelle condizioni il coprifuoco è ridicolo.
Sono tutte azioni non violente. Forse il distacco dalle ideologie che permette l’umorismo aiuta la nonviolenza, forse la capacità di padroneggiare le pulsioni estreme che caratterizza la nonviolenza aiuta l’umorismo. E comunque, l’ironia è di per sé l’opposto delle armi, la parola o il gesto le sostituiscono e in un certo senso le oltrepassano, perché danno forza ai più deboli e “smontano” il nemico. Con le armi non ci riusciresti.
Disobbedienza civile
Se la resistenza civile fa riferimento a situazioni di guerra, la disobbedienza civile può avere attuazione anche nel contesto della vita ordinaria, in una situazione di pace. Noi usiamo spesso la definizione di “disobbedienza civile” con buone intenzioni però anche con altrettanta vaghezza d’intenti. Non vengono in mente molti esempi di disobbedienza civile “in atto”. Ed è anche molto difficile capire quali dei conflitti e dei nodi politico-sociali sarebbe possibile tradurre in forme disobbedienza civile.
Eppure è uno strumento perfetto anche in tempo di pace e in stati democratici. Da noi trova difficoltà intanto perché la disobbedienza civile risente del clima, che non è favorevole alle lotte. Negli anni Settanta l’autoriduzione delle bollette suscitava molte simpatie, ora non sarebbe così, temo. E poi, credo, perché in genere da noi (con l’eccezione dei radicali) non è molto sviluppato l’aspetto di testimonianza, che è decisivo, compresa la testimonianza rappresentata dal pagare le conseguenze della disobbedienza. Le campagne per i diritti civili degli anni Cinquanta e Sessanta guadagnavano solidarietà negli Stati Uniti grazie al fatto che erano fatte “a viso scoperto”, che avevano protagonisti riconoscibili e anche grazie all’uso abile dei processi. Detto con il linguaggio di oggi, bisogna “metterci la faccia” se si vuole convincere altri e allargare la lotta. Bisogna che il comportamento di chi disobbedisce diventi un “esempio”, e l’esempio non possono diventarlo i fantasmi in passamontagna che nella valle di Susa forzano i recinti di un cantiere e poi spariscono, e se vengono processati non rivendicano la responsabilità dell’azione. Non è che debbano autoimmolarsi, ovvio, ma l’aspetto di testimonianza non c’è. E poi agire a viso coperto espone al rischio degli infiltrati. La lotta contro quel tunnel mostruoso di 58 chilometri merita di più, e per un po’ l’ha avuto, con le grandi manifestazioni pacifiche durate per anni.
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