Da quando abbiamo iniziato a interessarci e “agitarci” intorno alla questione dei profughi, come comunemente viene definita, sono passati quasi tre anni. Uno da quando abbiamo scelto la forma del comitato cittadino, che abbiamo chiamato “Anni in fuga”, come strumento per dare forma al nostro interesse e alla nostra “agitazione”. Nel frattempo sono iniziati ad arrivare a Nonantola piccoli gruppi di uomini e ragazzi che hanno chiesto protezione all’Italia e che sono stati inseriti in un programma di accoglienza, parola alquanto ambigua con cui definiamo il periodo che va dalla presentazione della domanda di asilo alla risposta, positiva o negativa, che le commissioni ministeriali danno a tale domanda. Anche per questo abbiamo deciso di formalizzare e definire meglio non tanto la struttura del comitato, che vogliamo mantenga al massimo grado i tratti della leggerezza, dell’apertura e dell’autogestione, quanto la sua organizzazione.
Ma per capire a che punto stiamo e il perché di questo giro di vite organizzativo è necessario fare un breve riassunto delle puntate precedenti, a uso soprattutto di coloro che si stanno aggregando in queste settimane al percorso di “Anni in fuga”.
Da dove siamo partiti? Da un documento, divulgato nell’aprile dello scorso anno, che abbiamo chiamato, un po’ ironicamente e un po’ no, Manifestazione di interesse pubblico. Ironicamente perché di solito sono gli enti pubblici che scrivono “manifestazioni di interesse” quando hanno bisogno di selezionare, con procedure a evidenza pubblica, gruppi o associazioni che collaborino a qualche progetto specifico o alla gestione di qualche servizio. Un po’ no, perché non ci sembra strano che la direzione di una “manifestazione” possa essere inversa, dalla società civile alle amministrazioni. Siamo convinti che i comuni e le istituzioni abbiano bisogno di una certa sollecitazione dall’esterno per assolvere realmente la loro funzione pubblica. L’efficacia, reale e non solo formale, di un servizio pubblico si gioca in gran parte in questa dialettica. È sempre stato così e oggi lo è ancora di più.
Fatto sta che la primavera scorsa un piccolo gruppo di persone che vivono e lavorano a Nonantola, ha chiesto al Comune, ai cittadini e alle associazioni nonantolane, di “manifestare” il loro interesse intorno a un tema che considera centrale: gli spostamenti forzati di numeri sempre più consistenti di uomini e donne che decidono di lasciare la propria terra a causa della guerra (civile o globale), della povertà, della mancanza di prospettive, del desiderio di condizioni di vita migliori. La centralità del tema non è data tanto dalla dimensione del fenomeno, tutto sommato ancora sotto controllo e gestibile (come ci ha spiegato Francesco Ciafaloni in uno dei primi incontri pubblici), quanto dalle risposte emergenziali, isteriche, irrazionali che nel complesso le istituzioni europee (e quelle italiane non fanno eccezione) hanno dato in questi anni alla cosiddetta “emergenza profughi”. E secondariamente dalla convinzione che scervellarsi per costruire condizioni dignitose di accoglienza alle persone che arrivano a Nonantola e percorsi ragionevoli per la loro “integrazione” aiuti a rimettere in moto i nostri cuori e i nostri cervelli (che con la crisi sembrano essersi ibernati) rispetto a problemi che riguardano in realtà tutti: casa, lavoro, povertà, accesso ai servizi, mobilità, eccetera.
Per un anno abbiamo fatto un lavoro prettamente culturale e informativo. Abbiamo messo insieme una piccola rete, costituita dai firmatari (una quarantina) della “manifestazione”; abbiamo studiato e raccolto informazioni sull’argomento; abbiamo cercato di condividere e portare al territorio, in una serie di incontri pubblici, le informazioni che andavamo raccogliendo; abbiamo creato intrecci con altre realtà (come gli scout Agesci o la Fondazione Villa Emma) che si interrogavano, da una prospettiva diversa, sugli stessi temi; abbiamo incontrato regolarmente rappresentanti dell’amministrazione e del consiglio comunale per offrire informazioni e contenuti che potessero essere utili ai loro processi decisionali e per verificare la possibilità di sperimentare forme “partecipate” di accoglienza in grado di disinnescare le contraddizioni più irragionevoli che hanno caratterizzato in questi anni la gestione italiana dei profughi.
Il nodo principale per noi era e rimane rompere tutti quegli assetti, quelle procedure, quegli schematismi che impediscono un contatto reale tra chi scappa e chi accoglie, tra i richiedenti asilo e le comunità all’interno delle quali sono collocati. Contatto reale che, sia chiaro, non esclude il conflitto. Laddove però i conflitti sono espliciti e saldamente ancorati a un piano di realtà possono portare con sé anche possibilità di crescita per tutti. Laddove sono soffocati, “isolati” o nascosti dalla burocrazia, dai processi di istituzionalizzazione delle nostre pratiche assistenziali, pubbliche o del privato sociale, portano solo alienazione, sradicamento, disgregazione sociale e in alcuni casi aggressività e violenza (tanto di chi è accolto come di chi accoglie).
Certo lavorare su un piano astratto, esclusivamente culturale, come abbiamo fatto dalla scorsa primavera a oggi, non aiuta a coagulare interessi e passioni. Ha consentito però di costruire uno “zoccolo” (che speriamo sia duro!) pronto a dire la sua e fare la sua parte, allorquando le persone fossero arrivate e la macchina si fosse messa in moto. E le persone nel frattempo sono iniziate ad arrivare. Dalla scorsa estate la prefettura di Modena, in accordo con la cooperativa Caleidos prima e con il Ceis da poche settimane, ha collocato 28 persone in appartamenti sparsi per il paese e (si spera temporaneamente) nella canonica di Redù. E ovviamente l’interesse e l’attenzione di tutti intorno all’arrivo dei “profughi” e ai meccanismi che hanno messo in moto sono aumentati notevolmente. CONTINUA
(Luigi Monti – comitato “Anni in fuga”)
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