I contributi previdenziali versati dagli immigrati (di cui difficilmente usufruiranno sotto forma di pensioni) rappresentano quasi un punto del Pil; i circa 2milioni e mezzo di lavoratori stranieri regolari producono l’8,8% della ricchezza collettiva del nostro paese; il saldo naturale demografico italiano è da qualche anno negativo: i vecchi stanno superando i giovani, i morti hanno superato i nati.
Dati che ci ha ricordato Francesco Ciafaloni in occasione del primo “passo” di Anni in Fuga e che in questi giorni hanno fatto giungere il presidente dell’Inps, il segretario della Conferenza dei vescovi e Luigi Manconi a una conclusione simile: politiche di accoglienza e apertura nei confronti degli immigrati e dei profughi sono necessarie, non solo giuste. Prospettive diverse e non tutte ugualmente disinteressate: il primo penserà anche alle tasse, l’altro alla salvezza delle anime e l’ultimo forse anche a esigenze di visibilità.
Ma il quadro “materiale” in cui si innesta la “crisi dei profughi” è questo. Ciò significa che l’accoglienza e la convivenza sono percorsi scontati è semplici? Tutt’altro. Le comunità stanno insieme o saltano per aria non solo in ragione delle condizioni materiali. Significa però che i presupposti per accogliere chi scappa dalla guerra o dalla miseria ci sono tutti. Gli ingredienti che ancora mancano sono l’intelligenza, il senso di giustizia e un certo piacere della sfida. L’alternativa è continuare lungo il processo di disintegrazione sociale e “spirituale” che l’Italia e l’Europa hanno imboccato da tempo, indipendentemente dall’“emergenza profughi”. (Comitato Anni in fuga)
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