di Stefano Liberti
Giornali, televisione e social sono fra i principali responsabili della difficoltà di interazione e integrazione tra italiani e stranieri. Rincorrono e amplificano paure e stereotipi, alimentano senso comune e ansie irrazionali. Non approfondiscono, non aiutano a comprendere. Codificano un pensiero-massa che è diventato l’unico bacino da cui le persone traggono argomenti di discussione. Una discussione che diventa immediatamente lagna, livore, accuse generiche, astratte e non circostanziate alla politica. Il contrario insomma della “critica”.
Non cerchiamo quindi nei giornali, nella televisione e nei social informazioni o analisi utili al nostro lavoro culturale e di integrazione, ma solo sintomi e indizi che confermino o al contrario che mettano in crisi le idee che andiamo costruendo nel nostro lavoro territoriale. Come ad esempio questo breve intervento di Stefano Liberti uscito su Internazionale online del 27 settembre 2016, sintomo di una “narrazione” che finalmente inizia a problematizzarsi e quindi ad aderire un po’ di più alla realtà. Condizione necessaria per inventare e sperimentare pratiche di integrazione meno alienanti di quelle che abbiamo messo in piedi sinora. (Comitato “Anni in fuga”)
Hanno ragione i sindaci di Milano e Bergamo, Beppe Sala e Giorgio Gori: occorre uscire dalla dinamica emergenziale e ripensare in toto il sistema di gestione dei flussi migratori. Il fenomeno è strutturale e non può più essere affrontato con gli strumenti del passato: come sottolineano entrambi i primi cittadini nelle loro lettere a Repubblica (si possono leggere qui e qui), da paese di transito siamo diventati paese di destinazione. Questo non perché l’Italia offra condizioni particolarmente allettanti, ma perché gli altri stati membri dell’Unione europea hanno di fatto chiuso le frontiere.
Nel 2016 sono sbarcati già più di 130mila migranti. L’anno scorso ne sono arrivati 153mila. Si tratta di cifre gestibili per un paese che ha 60 milioni di abitanti e 5 milioni di immigrati. Ma lo diventano meno se la stragrande maggioranza di queste persone sono inserite in un meccanismo d’accoglienza che fa acqua da tutte le parti e non presenta alcun crisma di funzionalità.
Tutti coloro che arrivano via mare sono immessi nel sistema di richiesta d’asilo, che è al momento l’unico modo per rimanere legalmente in Italia. Sono quindi mandati nelle strutture d’accoglienza per tutto il periodo in cui la loro domanda è esaminata – ossia per circa un anno e mezzo, anche di più se si contano i ricorsi.
Bisogna trovare un quadro giuridico per accogliere quanti arrivano senza costringerli a chiedere asilo
Il fatto è che, dopo i lunghi mesi trascorsi nei centri, molti di loro non ottengono alcun documento (nel 2015 il 58 per cento delle richieste è stato respinto, solo il 5 per cento dei richiedenti ha avuto lo status di rifugiato). E per una semplice ragione: non ne hanno diritto. La maggioranza è infatti costituita dai cosiddetti “migranti economici”: ossia persone che non fuggono da situazioni di aperto conflitto, ma partono spinte dal desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, esattamente come facevano gli emigranti italiani degli anni cinquanta. Inserirli in un percorso di richiesta d’asilo è un gigantesco bluff, sia per il nostro paese (che con una mano li spinge a presentare la domanda, con l’altra gliela respinge) sia per loro, che si vedono costretti in molti casi a inventarsi improbabili storie di persecuzioni.
Questa pantomima non giova a nessuno: i costi per il sistema paese, che ne gestisce l’accoglienza per mesi, e per gli immigrati, che rimangono in un limbo d’indeterminatezza e assistenzialismo, sono enormi. Senza contare il dopo: i migranti “diniegati” diventano di fatto irregolari. Poiché rimpatriarli è complesso e oneroso, restano sul territorio senza diritti, facili prede del lavoro nero, del caporalato e dei circuiti di attività illecite.
Occorre quindi ripensare tutto il sistema: trovare un quadro giuridico per accogliere quanti arrivano senza costringerli a chiedere asilo. È uno scandalo dire che bisogna dare un permesso di soggiorno a tutti quelli che sbarcano, magari dopo un’accoglienza di qualche mese in cui vengono inseriti in autentici percorsi di formazione professionale? Si dirà: l’Europa non accetterà mai una politica di questo tipo. Ma l’Europa ha anche storto il naso quando il nostro governo ha lanciato l’operazione Mare nostrum, la più grande operazione di salvataggio in mare dal dopoguerra. Si dirà: l’opinione pubblica reagirà male. Ma la politica ha anche il compito di orientare l’opinione pubblica, proporre visioni di lungo periodo e non solo inseguire effimeri sondaggi d’opinione.
È un compito arduo, perché impone il rovesciamento di un intero immaginario. Richiede di uscire dall’idea che gli immigrati siano un peso e cominciare a pensarli invece come una risorsa, tanto più necessaria in un paese in costante e inesorabile invecchiamento. Soprattutto, ci obbliga a pensarli come soggetti attivi, con i propri diritti e doveri, alla pari di qualsiasi altro cittadino. Cosa che può accadere solo nel momento in cui forniamo loro gli strumenti legali per partecipare alla vita del paese. L’alternativa è continuare con la politica dell’emergenza, del finto asilo, dei dinieghi e dell’irregolarità, che crea solo disagio e marginalità e alla lunga produrrà tensioni sociali di sempre più complessa gestione.
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