di don Erio Castellucci
Tradizionalmente, per il giorno di San Geminiano, il vescovo di Modena scrive una lettera alla città su temi di interesse collettivo, non solo religiosi o pastorali. Quest’anno, don Erio Castellucci ha deciso di affrontare in maniera pacata ma anche netta e senza prudenze istituzionali il rapporto tra Modena e i nuovi cittadini, tra le comunità che accolgono e gli uomini e le donne che, in fuga dai quattro angoli della terra, finiscono per arrivare nelle nostre città e nei nostri paesi. La righe finali lasciano intendere un desiderio di confonto franco che nei prossimi mesi, anche a Nonantola, varrà la pena perlustrare. (Comitato “Anni in fuga”)
Ascoltando l’omelia che papa Francesco ha pronunciato pochi giorni fa, domenica 14 gennaio, in occasione della 104° Giornata Mondiale del migrante e del rifugiato, mi è venuto in mente un episodio capitato al doposcuola parrocchiale alcuni anni fa. La scena riguarda un bimbo di dieci anni, figlio di genitori tunisini, che insieme ad altri bambini – figli di famiglie italiane o provenienti dall’estero – frequentava il doposcuola parrocchiale. Era nato nel nostro paese e parlava perfettamente l’italiano. Quel pomeriggio era piuttosto confuso, perché la maestra che il giorno prima aveva assegnato un’esercitazione in classe dal titolo “Descrivi il tuo paese”, aveva riportato il compito corretto dicendogli che era andato fuori tema, poiché aveva parlato dell’Italia, mentre avrebbe dovuto parlare del “suo paese”. Quel bimbo chiese dunque all’insegnante del doposcuola: “ma qual è il mio paese?”.
Sono tante le persone che potrebbero domandarsi: “qual è il mio paese?”. Le migrazioni accompagnano da sempre la storia dell’umanità e segnano l’incontro e lo scontro tra culture, religioni e popoli. Pensiamo solo, per rimanere a casa nostra, ai circa 50 milioni di italiani che tra il 1870 e il 1970 emigrarono all’estero, soprattutto in Argentina, Stati Uniti, Brasile e Canada, ma anche in Australia. E pensiamo ai 254 milioni di migranti attuali, cioè circa il 3% degli abitanti del pianeta, dei quali circa 60 milioni sono profughi o sfollati, cioè costretti a lasciare la propria casa per andare in un altro paese o in un altro luogo del loro stesso paese, e oltre 22 milioni sono rifugiati, cioè persone che cercano di scappare dalle guerre e dalle violenze. Alle tante crisi politiche e sociali del pianeta si aggiungono crisi economiche e crisi ecologiche, le quali determinano altre migrazioni.
Il fenomeno è così complesso che nello spazio di una Lettera alla città non può neppure essere delineato. Pensando però che anche San Geminiano è stato migrante per qualche tempo, nel suo viaggio a Costantinopoli per guarire la figlia dell’imperatore – episodio splendidamente rappresentato nell’architrave della Porta dei Principi del Duomo di Modena – ho deciso di scrivere queste righe nell’annuale Solennità del nostro grande Patrono. Ringrazio in particolare l’ufficio diocesano Migrantes, che ha fornito delle riflessioni molto importanti, frutto di un lavoro di gruppo svolto con il metodo ispirato alla “scrittura collettiva” inventata oltre mezzo secolo fa dal maestro Mario Lodi e da don Lorenzo Milani. Ho cercato inoltre di mettere a frutto la lettura di diversi articoli e saggi sull’argomento e la partecipazione alcune settimane fa, insieme ad una cinquantina di sacerdoti della diocesi, a tre giornate di aggiornamento sulle migrazioni.
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“Ma qual è il mio paese?”. Questa frase tradisce prima di tutto un certo smarrimento, il timore di non avere un punto di riferimento stabile. Si potrebbe dire che esprime letteralmente uno “spaesamento”. Forse per questo mi è venuto in mente l’episodio dell’oratorio proprio mentre ascoltavo papa Francesco. In un passaggio dell’omelia del 14 gennaio, infatti, ha detto: «Non è facile entrare nella cultura altrui, mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze. E così spesso rinunciamo all’incontro con l’altro e alziamo barriere per difenderci. Le comunità locali, a volte, hanno paura che i nuovi arrivati disturbino l’ordine costituito, “rubino” qualcosa di quanto si è faticosamente costruito. Anche i nuovi arrivati hanno delle paure: temono il confronto, il giudizio, la discriminazione, il fallimento».
Il timore, lo spaesamento, può riguardare dunque sia i cittadini italiani sia i migranti. I primi dicono a volte: “Ma qual è il mio paese? Non lo riconosco più: in giro vedo ormai più stranieri che italiani. è un’invasione! Non c’è lavoro nemmeno per noi italiani e loro vengono qua…”. Sono considerazioni che si sentono quotidianamente, espresse con toni a volte rassegnati e a volte arrabbiati. In alcuni casi, specialmente su internet, frasi simili si replicano, favorendo anche giudizi sommari e dando la stura a linguaggi ostili e perfino ad espressioni volgari e violente. Anche i migranti qualche volta vivono paure, timori e chiusure e possono arrivare ad esprimere comportamenti ed avanzare pretese tali da provocare reazioni negative. Inaspettatamente papa Francesco definisce queste paure «legittime, fondate su dubbi pienamente comprensibili da un punto di vista umano». Diversamente da quanto alcuni pensano – che papa Bergoglio sia un sognatore ingenuo e ignaro della complessità del fenomeno migratorio – il suo sguardo è realistico: le paure esistono e non sono sempre infondate. E aggiunge: «avere dubbi e timori non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto. Il peccato è rinunciare all’incontro con l’altro, all’incontro con il diverso, all’incontro con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore».
A volte purtroppo è la paura, alimentata ad arte, a prendere il sopravvento. Come favorire il passaggio dai legittimi timori, o dalle vere e proprie paure, all’incontro e all’inclusione? Credo che occorra passare attraverso la conoscenza della situazione. La paura infatti segnala un problema, ma non riesce a trovare la soluzione. Il primo passo per traghettare la paura verso l’incontro è il contrasto alla disinformazione.
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“Ma qual è il mio paese?”. Questa domanda può assumere anche una tonalità diversa dalla paura e dal timore, ed esprimere piuttosto, sia da parte dei cittadini italiani sia da parte dei migranti provenienti dall’estero, il desiderio di conoscere. In questo senso, non solo la domanda è legittima, ma è doverosa: senza informarsi sulla realtà prevalgono i pregiudizi e le paure. I metereologi distinguono tra temperatura reale e temperatura percepita, segnalando talvolta una forbice notevole tra le due. Nei primi giorni dell’agosto scorso a Modena si sono toccati i 42° reali, ma quelli percepiti superavano i 50°. In certi momenti accade la stessa cosa a riguardo del fenomeno migratorio: la percezione è distorta rispetto alla realtà; alcuni parlano così di “allarme”, di “invasione”, e magari di “invasione musulmana”.
Non sono i numeri, ma i volti, che aiutano a vincere paure e pregiudizi. Però i numeri aiutano. E per capire “qual è il mio paese” devo passare anche attraverso l’aritmetica; la statistica fornisce queste cifre, qui arrotondate: la popolazione italiana residente è formata da poco meno di 61 milioni di persone, dei quali circa 5 milioni di origine straniera; tra di loro un milione e mezzo sono di religione musulmana e circa un milione e 600.000 cristiani, per lo più di confessione ortodossa. Complessivamente quindi i migranti presenti nel nostro paese sono l’8,3% della popolazione e i musulmani sono il 2,5%. Quanto agli “sbarchi”: negli ultimi quattro anni sono giunti in Italia via mare circa 625.000 migranti: 170.000 nel 2014, 154.000 nel 2015, 181.000 nel 2016 e 120.000 lo scorso anno.
Altri numeri possono aiutare a capire “qual è il mio paese”. I lavoratori stranieri in Italia, i quali spesso svolgono mansioni che non attirano gli italiani, producono un saldo annuo positivo per le casse dell’INPS di circa 5 miliardi di Euro all’anno, tali da mantenere oggi più di 600.000 pensionati. Gli studenti stranieri in Italia sono 814.000; senza di loro quasi tremila scuole sarebbero chiuse e migliaia di docenti non avrebbero lavoro. Alla fine del 2016 erano 571.000 in Italia le aziende condotte da lavoratori immigrati, il 9,4 % di tutte le aziende italiane; e queste aziende danno lavoro anche a molti italiani, specialmente nei settori del commercio, dell’artigianato, dell’edilizia e della ristorazione. Venendo alla provincia di Modena, su una popolazione 701.000 cittadini risultano presenti nel territorio poco più di 90.000 residenti stranieri, cioè quasi il 13%.
Si potrebbe continuare con le cifre, ma sono sufficienti questi accenni per dare un’idea precisa del fenomeno. Non c’è motivo di parlare di invasione, né tantomeno di invasione islamica. Ciò non significa affatto sottovalutare i lati problematici, gli eventuali contraccolpi psicologici negativi e alcuni comportamenti deviati, che vanno bloccati e puniti da qualunque parte vengano e che sono ovviamente favoriti da situazioni di instabilità, mancato impiego, precarietà abitativa e indisponibilità economica. Purtroppo la carenza di normative adeguate crea dei vuoti legislativi, per cui i migranti e i rifugiati, in alcune fasi della loro permanenza, non sono tutelati adeguatamente nemmeno per l’assunzione di un lavoro temporaneo e si trovano spesso in condizioni di ozio forzato, che nuoce a loro e ai cittadini italiani e favorisce condotte illegali, talvolta dentro a reti di malavita e sfruttamento gestite da organizzazioni senza scrupoli. Viene spesso riferito un dato che fa pensare: sulle circa 57.000 persone detenute in Italia, un terzo sono di origine straniera; e spesso questo fatto provoca considerazioni xenofobe. Ma per interpretarlo bene, occorre sapere – senza diminuirne la portata – che il 90% dei cittadini italiani incriminati o condannati ha la possibilità di ottenere misure alternative alla detenzione, cosa che è possibile solo al 10% degli stranieri incriminati o condannati. Anche in considerazione di questi delicati fenomeni, dovremmo tutti concorrere ad invocare e provocare interventi legislativi adeguati e prassi più snelle e meno burocratizzate, per rendere più agevole l’ottenimento dei permessi di soggiorno e le verifiche per la concessione dello status di rifugiato.
E infine – ma ci sarebbero altri dati da considerare – dell’informazione fa parte anche il dovere di conoscere le cause del fenomeno migratorio legato ai rifugiati; cause che forse meriterebbero qualche ammissione di colpa da parte di alcuni paesi occidentali: dalle conquiste coloniali alle guerre che, in Siria, Iraq e in varie zone dell’Africa, sono tuttora alimentate anche dallo sfruttamento economico e dal commercio delle armi sulle quali i paesi venditori – tra cui l’Italia – guadagnano non poco.
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“Ma qual è il mio paese?” Subito dopo avere risposto alla domanda di quel bimbo, l’insegnante del doposcuola parrocchiale prese informazioni sulla maestra che l’aveva suscitata; con un certo sollievo, apprese che si trattava di una supplente e che solo da pochi giorni stava sostituendo la titolare. È stato insomma un incidente di percorso e non l’espressione di cattiva volontà. La scuola, infatti, si conferma uno dei luoghi decisivi dell’integrazione, la cui prima fase è proprio l’inclusione, che è un’opera prima di tutto culturale.
È ormai il momento di passare dai numeri ai volti e dire chiaramente che il modo per vincere la paura e prendere coscienza della realtà è di favorire l’incontro. I cristiani, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, ritengono che la persona venga prima di ogni categoria e quindi mettono al primo posto la dignità della persona umana su tutte le altre considerazioni: si può dire che questo è il loro contributo fondamentale fin dall’inizio alla civiltà occidentale.
Quando ci troviamo di fronte ad una persona, vale più questo dato rispetto alle domande – pur legittime, e anzi necessarie, sulla sua appartenenza – provenienza, condizione e sui suoi diritti. Quando abbiamo davanti un essere umano che ha bisogno, è debole, ha sofferto, magari è anche minorenne, il primo passo per noi esseri umani più fortunati, e soprattutto per chi tra di noi crede alla verità del Vangelo, è quello di attivare l’accoglienza.
Poi verranno tutte le altre considerazioni, doverose e sacrosante: è giusto? Chi ci guadagna? Come evitare che dieci migranti al giorno anneghino tra la costa libica e la Sicilia? Come combattere lo sfruttamento disumano dei trafficanti? Come aiutare i migranti profughi nelle loro terre? Non è certo questo il contesto per discuterne, ma sarebbe bello poterne parlare civilmente, senza scatenare rabbia e odio. Sarebbe bello evitare strumentalizzazioni politiche ed essere liberi di potersi esprimere sulla opportunità di un riconoscimento di cittadinanza per chi nasce e viene educato in Italia, senza sentirsi accusare di populismo. Oppure poter manifestare perplessità sui recenti accordi tra Italia e Libia, che hanno certo limitato il flusso di migranti ad un prezzo umanitario però molto elevato, senza sentirsi accusare di ingerenza. O mostrare, anche attraverso le cifre, che il primo modo di aiutare i profughi “a casa loro” sono le rimesse che gli immigrati inviano dall’Italia ai loro paesi d’origine, stimate attorno ai 5 miliardi di Euro, senza sentirsi accusare di faciloneria.
“Ma qual è il mio paese?”: possiamo rispondere ancora con le parole che papa Francesco ha pronunciato l’8 gennaio scorso davanti al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede: «Desidero esprimere particolare gratitudine all’Italia che in questi anni ha mostrato un cuore aperto e generoso e ha saputo offrire anche dei positivi esempi di integrazione. Il mio auspicio è che le difficoltà che il paese ha attraversato in questi anni, le cui conseguenze permangono, non portino a chiusure e preclusioni, ma anzi a una riscoperta di quelle radici e tradizioni che hanno nutrito la ricca storia della nazione e che costituiscono un inestimabile tesoro da offrire al mondo intero». Se a qualcuno potrà sembrare troppo generoso questo riconoscimento all’Italia è perché rimbalzano alle cronache più che altro le difficoltà e le tensioni; ma chi vive a stretto contatto con il territorio, conosce e vede che le non poche “chiusure” sono contrastate da molti “positivi esempi” di incontro e inclusione. Potrebbero testimoniarlo prima di tutto coloro che si impegnano nelle coste della Sicilia e tanti altri che dovunque prestano i primi soccorsi; ma anche i Prefetti, i Sindaci, la Polizia e i Carabinieri e le forze di sicurezza e di vigilanza, le associazioni di volontariato e innumerevoli altri enti e singoli, tra cui le comunità cristiane e i semplici fedeli. E potrebbero testimoniarlo coloro che a partire dal novembre 2017 hanno aperto i “canali umanitari” con l’Africa, realizzando il trasferimento aereo in Italia di profughi particolarmente provati, aventi diritto alla protezione internazionale, che vengono accolti nelle diocesi italiane. Questa iniziativa, che apre una strada nuova, è stata avviata dalla Comunità di Sant’Egidio e fatta propria dalla CEI e dallo Stato italiano.
Ma potrebbero testimoniarlo soprattutto coloro che operano quotidianamente negli spazi della socializzazione: famiglia, scuola, lavoro, sport, luoghi di svago, cura, cultura e dialogo, sono le principali esperienze di reciproca integrazione tra persone di origine italiana e di origine straniera. Tutte le “agenzie educative”, parrocchie comprese, sono impegnate a fondo in quest’opera, nel rispetto della legalità e della Costituzione italiana, sui quali principi di libertà, responsabilità e democrazia non si può transigere. Ma questo rispetto non è innato, si impara nel percorso educativo; e l’incontro con l’altro, con lo straniero, con chi proviene da una cultura e spesso da una religione diversa, non deve essere un’insidia, ma un confronto che aiuta a costruire con maggiore consapevolezza e ricchezza la propria identità. Contrapporre identità e accoglienza è insensato, perché per noi occidentali e specialmente per i cristiani l’accoglienza è scritta nella carta di identità: “ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,43). L’incontro è l’antidoto della paura e dell’odio e il seme della pace.
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Nella nostra diocesi sono presenti sette comunità cattoliche di immigrati: africana anglofona, africana francofona, polacca, srilankese, filippina, ucraina, latinoamericana. Sono poi presenti, accanto a queste, tre comunità cristiane ortodosse, di diverse lingue, che fanno riferimento a tre sacerdoti inviati dai patriarcati romeno, russo ed ecumenico. A queste comunità e alle loro guide va la gratitudine di tutti i modenesi, perché esse rappresentano dei piccoli “laboratori” ecclesiali di integrazione reciproca. Sono migliaia di fratelli e sorelle che vivono la loro esistenza quotidiana nelle case, nelle fabbriche e negli uffici, nelle scuole e negli ospedali, nelle parrocchie e nelle strade e che aiutano tutti a respirare l’universalità della Chiesa e recuperare un entusiasmo qualche volta perduto nelle nostre comunità occidentali.
Mi permetto di chiudere citando un passaggio della Lettera pastorale che ho indirizzato lo scorso settembre alla diocesi: «La presenza di migranti cristiani e di altre religioni e tradizioni interroga la nostra capacità di dialogo e annuncio e ci chiede di aggiornare alcuni capitoli della carità cristiana: ad esempio moltiplicare le esperienze di accoglienza della vita nascente, data anche la difficoltà per alcune madri di provenienza straniera a tenere i loro bimbi appena nati o molto piccoli; dare dei segnali di accoglienza dei richiedenti asilo, mettendo a disposizione dei luoghi e soprattutto cercando di creare attraverso l’accoglienza diffusa dei legami personali e comunitari che favoriscano l’inclusione, superando così la metodologia emergenziale che fa sentire continuamente “l’acqua alla gola”; moltiplicare le esperienze di impiego e, dove possibile, creare occasioni di lavoro per chi ne è privo, facendo circolare i talenti, piuttosto che conservarli gelosamente».
Poiché vorrei dedicare la prossima Lettera pastorale all’argomento della comunità “inclusiva” e multietnica, ringrazio tutti coloro che vorranno farmi giungere entro settembre 2018 osservazioni, idee, esperienze e disponibilità che possano contribuire a costruire insieme un’accoglienza non semplicemente emergenziale ma veramente strutturale e strutturata.
Modena, 31 gennaio 2018, Solennità di San Geminiano
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